Noi: come il genere distopico ha avuto inizio
- Miriam
- 8 mar 2024
- Tempo di lettura: 4 min
Una storia editoriale travagliata
Quando si parla di distopia in ambito letterario il pensiero va subito al romanzo che ha consacrato la fama del genere, ovvero 1984 di George Orwell. Ma forse non tutti sanno che probabilmente questo romanzo nemmeno esisterebbe senza la scintilla da cui tutto è partito, il capostipite che ha dato avvio al proliferare del genere nel Novecento: Noi di Evgenij Ivanovič Zamjatin.
L'opera di Zamjatin è, cronologicamente parlando, la prima distopia apparsa nel panorama novecentesco: perché un romanzo che ha avuto un ruolo così preponderante nell'ispirazione successiva di mondi distopici è allo stesso tempo il meno conosciuto tra tutti?

Per poter comprendere il parziale oblio nel quale è stata relegata questa storia è necessario fare un passo indietro e conoscere il suo destino letterario che fu tutt'altro che fortunato.
Le motivazioni per cui il romanzo fu osteggiato furono prima di tutto politiche. Zamjatin, infatti, nel corso della sua vita fu esiliato più volte perché considerato un rivoluzionario. Proprio in uno di questi esili, nel 1921, scrisse Noi che in Unione Sovietica vide la luce solo nel 1988.
Questo divario temporale è attribuibile al fatto che lo Stato sovietico vi riconosceva al suo interno un'evidente satira nei confronti di quel comunismo verso cui l'autore diventava sempre più scettico.
Questo gli procurò numerose diffamazioni da parte delle case editrici che lo emarginarono come intellettuale e lo costrinsero a ritirarsi in Francia.
Il romanzo si caratterizza, infatti, per un'aspra critica nei confronti dell'ideologia sovietica originata da quella rivoluzione che lui aveva in un primo momento appoggiato.
Il comunismo rappresentò, infatti, l'utopia per eccellenza del Novecento: il grande sogno di uguaglianza e giustizia delle società moderne. E proprio l'applicazione reale, la congiuntura storica di questa utopia si dimostrò un grande fallimento che mise in luce gli aspetti totalitari del regime e che scosse a fondo le coscienze degli intellettuali che avevano creduto fermamente in quel sogno.
Zamjatin fu uno di quei primi intellettuali che mise in luce il lato oscuro dell'utopia e se in patria venne osteggiato ed emarginato per questo, all'estero la sua opera trovò, al contrario, terreno fertile e venne pubblicata negli Sati Uniti nel 1924.
I semi del genere distopico e il concetto di umanità
In questa storia non abbiamo persone identificabili con un nome ma con codici alfanumerici. Il nostro protagonista viene, infatti, identificato con il codice D-503 e noi veniamo a conoscenza del mondo in cui vive e di ciò che succede tramite le sue annotazioni che rappresentano una prima breccia in un sistema caratterizzato dall'ipercontrollo e dall'abolizione della libertà individuale. Gli individui di questo mondo vivono in case di vetro così da permettere una continua vigilanza e le loro azioni sono regolamentate da permessi, a partire dal sesso che viene reso obbligatorio ma scandito da orari e prenotazioni. Tutto è ordinatamente matematico e artificiale, nel senso che la natura e tutto ciò che può portare imprevedibilità viene tagliato fuori dalla cosiddetta Barriera verde, limite invalicabile di questo mondo. Ma la storia prenderà una piega inaspettata con l'arrivo di I-330, una donna dalle intenzioni apparentemente misteriose e opposte al volere del regime.

Come è già osservabile dai primi accenni alla trama del romanzo, Zamjatin si può facilmente identificare in colui che ha piantato i semi di un genere che ha raggiunto il suo apice, in particolare, nella seconda metà del Novecento.
Il primo di questi semi è individuabile già nel titolo della sua opera: Noi.
Può essere considerato, infatti, come il simbolo che racchiude la più grande critica ai regimi totalitari: la sparizione dell'individuo a favore di una massa indistinta identificabile in un corpo e un pensiero unico.
Il noi che sostituisce l'io si fa infatti portavoce di un pensiero che antepone al Bene collettivo e dello Stato il valore individuale di ciascuno.
Contribuisce a tutto ciò anche la sostituzione dei nomi con dei codici in quanto il nome personale, come dice la parola stessa, identifica la persona e le dà una sua caratterizzazione specifica, con tutte le sfumature e i significati che un nome può assumere. Tutto ciò viene spazzato via dalla precisione e puntualità matematica che regna nel romanzo (spia, tra l'altro del mestiere di ingegnere dell'autore).
Ma gli elementi che più di tutti costituiscono gli spunti fondamentali delle future distopie sono il concetto di sorveglianza continua e di isolamento del mondo descritto.
Le case di vetro, infatti, non possono non richiamare alla mente il celebre occhio del Grande fratello divenuto simbolo per eccellenza della mancanza di privacy. Sempre per rimanere su questo confronto, il diario che Winston Churchill decide di iniziare nella distopia orwelliana richiama molto da vicino le annotazioni di D-503, connotate dallo stesso senso di colpevolezza e segretezza di un gesto percepito come rivoluzionario.
Ma Orwell non è il solo ad avere un debito nei confronti dell'autore russo: la precisione matematica sul quale questo mondo è costruito, la sua perfezione, oltre che il sesso regolamentato e la Barriera verde sono tutti elementi che verranno presi ed ampliati da Aldous Huxley nel suo Mondo Nuovo.

La genialità di costruire un mondo al limite tra l'utopia e la distopia appartiene a entrambi gli scrittori che in questo modo riescono a generare nel lettore riflessioni etiche e filosofiche piuttosto importanti.
In questa ricerca di ordine e perfezione emerge anche il concetto per cui l'uomo sente la profonda necessità di regolamentare e ordinare tutto ciò che sfugge al suo controllo.
Ma l'uomo è imperfetto per natura e forse è proprio in questa sua imperfezione che sta la radice profonda del senso di essere umani.
Ed ecco che quello di Zamjatin si connota dunque come un romanzo che rivendica la bellezza di un'umanità che ancora resiste alla tendenza all'ordine, al perfezionismo, di un'umanità, appunto, meno perfetta ma sicuramente più vera.
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