Quando abbiamo cominciato a immaginare mondi distopici?
- Miriam
- 1 mar 2024
- Tempo di lettura: 6 min
Quando pensiamo alla Science fiction, comunemente nota come fantascienza, le immagini che ci saltano subito alla mente sono missioni spaziali, alieni, viaggi nel tempo, esplorazioni di altri pianeti e tanto altro.
Ma in questa macrocategoria sono racchiusi altri sottogeneri, tra cui la distopia.
Ma cos’è la distopia e come nasce?
L’affermarsi del genere utopico
Per poter parlare del genere distopico occorre fare un passo indietro e stabilire, per contrasto, di cosa si parla quando si parla di utopia.
Partendo dall’etimologia del termine derivante dal greco, l’utopia può essere intesa sia in termini di ou-topia, quindi un luogo che non c’è, sia di eu-topia, ovvero un luogo felice, evidenziando al tempo stesso un mondo immaginario e positivo, dove l’uomo possa vivere felicemente, in armonia con sé stesso e la natura.
Pensare a un mondo utopico equivale a riflettere sul grande dilemma per eccellenza: stabilire cosa determini l’umanità e le sue potenzialità in modo da realizzare un progetto di evasione dal mondo circostante.
Ma andando ad analizzare le più grandi teorizzazioni utopiche, a partire dalla classicità, si può osservare come molto spesso il confine tra sogno ed incubo sia molto sottile.
Jean Servier e Marie Louise Berneri si sono occupati di tracciare una storia dell’Utopia a partire dall’antichità per arrivare al Novecento, analizzando l’evolversi del concetto lungo i secoli e sottolineando gli elementi persistenti e le eventuali differenze.
Servier nella sua Storia dell’Utopia ha evidenziato come l’evasione in mondi immaginari abbia sempre le proprie radici nel presente: l’utopia non è altro che la teorizzazione di un luogo ideale, immaginato e ideato allo scopo di fornire un’evasione finzionale da un mondo che non va come vorremmo e che quindi immaginiamo migliore.
Ma è stata Berneri che, forse per prima, ha messo in luce come anche le utopie non siano poi mondi così perfetti come si immagina.
Nel suo saggio, infatti, ha analizzato un aspetto in particolare, quello dell'abito, che si ritrova in molti romanzi utopici: il vestiario è forse quella cosa che più di tutti evidenzia questa uniformità e questo schiacciamento dell’individualità, della libertà personale che attraverso l’abito trova la sua espressione più immediata.
Quando ci vestiamo, infatti, esprimiamo noi stessi, la nostra identità: l’abito è ciò che noi scegliamo di mostrare agli altri ed è evidente che indossando delle tuniche o delle uniformi questa libertà ci venga in qualche modo negata.
D’altra parte, questa apparente libertà la si può osservare fin dalla prima teorizzazione utopica: La Repubblica di Platone.
Oltre al fatto che nella Repubblica ciascun cittadino appartiene a una classe sociale rigidamente definita in nome di un bene superiore, ovvero lo Stato, osservando l’organizzazione sociale e culturale di questo stato ideale, un aspetto che ritroveremo anche in molte delle distopie novecentesche è la discriminante che permette di individuare uno stato totalitario da uno democratico, ovvero la libera presenza e fruizione dell’arte.
Nell’utopia di Platone infatti non è permesso introdurre nuovi metodi educativi, considerati sovversivi, e l’arte, la musica e la letteratura devono conformarsi a certi standard.
Proprio su questo modello classico si baserà molta della produzione utopica soprattutto rinascimentale, ritornando alla riflessione platonica e recuperandone molti aspetti determinanti.
Thomas More può essere considerato l’iniziatore del genere vero e proprio: la sua Utopia oltre a fornire una prima attestazione del termine in ambito narrativo rappresenta anche un modello stilistico che fornirà la base esemplare per molti romanzi a venire.
L’idea di fondo che costituisce il nerbo del testo viene presentata come resoconto di un viaggio e questo mondo utopico viene posizionato ai confini della realtà, su un’isola, luogo separato dal resto del mondo.
Già da qui possiamo delineare degli elementi stilistici ricorrenti di quello che diverrà poi a tutti gli effetti un genere narrativo, a partire proprio dall’influsso della letteratura di viaggio e dei romanzi di avventura sul genere in questione: le idee sono veicolate da una forma narrativa che contempla il racconto di un personaggio che scopre un nuovo mondo ed entra in contatto con una nuova realtà.
Dall’Utopia alla Distopia: il segnale di un’epoca
Nonostante la dimostrazione di aspetti spesso autoritari nella costante ricerca di perfezione tipica di ogni utopia, la teorizzazione di mondi possibili può assumere anche le forme di un vero e proprio incubo da evitare o scongiurare.
La distopia o utopia negativa o controutopia può essere considerato il segnale di un’epoca in quanto caratteristica del Novecento.
Forse l’opera che più di tutte segna questo passaggio dalla riflessione utopica alla produzione distopica è rappresentata dai Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, considerabile proprio un precursore del genere distopico, perchè attua una critica filosofica della società attraverso l’ironia.

Sebbene la distopia abbia lo stesso fine dell’utopia, quello di mettere in luce aspetti critici della società, i mezzi con cui lo fa sono estremamente differenti: il mondo narrato, ben lontano dall’essere un mondo ideale, incarna ed esaspera tutti gli aspetti negativi, o quelli creduti positivi, che si riscontrano nel tempo presente, con lo scopo precipuo di stimolare una riflessione costruita attraverso l’ironia o l’inversione.
Il genere della distopia ricalca molto spesso lo schema del genere utopico, presentando l’isolamento del mondo descritto, una sorta di separazione in cui il mondo in questione, razionalmente organizzato e funzionale, si oppone al caos.
I due generi devono far fronte, poi, ad una serie di problematiche di tipo narrativo derivate dal loro essere generi ibridi che assommano su di loro diversi elementi presi principalmente dalla letteratura di viaggio, dalla saggistica e dai romanzi di avventura.
Abbiamo visto infatti come il motivo del viaggio tra due mondi opposti sia ricorrente nell’utopia e si ripresenti in egual misura nella distopia. Il livello saggistico è presente in quanto teorizzazione programmatica di un mondo auspicabile o al contrario temibile.
Ne deriva, dunque, un sapiente lavoro di equilibrio fra le parti che ha come obiettivo un romanzo riuscito, con una trama incalzante ma allo stesso tempo funzionale al messaggio di fondo.
Un’ulteriore sfida che si presenta allo scrittore di distopie, è quella, non indifferente, dell’ideazione di un linguaggio specifico che rispecchi la proiezione nel futuro tipica delle distopie.
Se ci riflettiamo, infatti, tutti i romanzi distopici sono situati in un futuro, lontano o vicino che sia, e la lingua deve quindi essere coerente con questa proiezione futura. Basti pensare al caso per eccellenza: 1984 di George Orwell dove si teorizza proprio una Neolingua.
Il romanzo distopico critica il mondo circostante mettendone in luce le possibili derive autoritarie, andando ad accentuare, e molto spesso ad esagerare, degli elementi già presenti nel mondo di partenza che si intende criticare, come un monito, un avvenimento da scongiurare.
Il Novecento è il secolo che più di tutti si presta alla produzione distopica perché ricco di contraddizioni interne che mettono in crisi il concetto stesso di umano, come noi lo conosciamo. Il rapido sviluppo tecnologico, infatti, porta con sé idee di progresso e ottimismo dato da una cieca fede nella scienza che diventa uno dei temi centrali nella teorizzazione utopica. Ma è proprio questa cieca fiducia ad essere ben presto contrastata da un pensiero distopico che si concentra in particolare sugli effetti della scienza e di questo progresso sulla natura umana.
La tecnologia ai suoi albori fa nascere nuovi timori e paure, portando alla constatazione che non è più la macchina ad essere al servizio dell’uomo ma l’uomo schiavo di essa.
D’altra parte, è evidente l’influsso su gran parte dei romanzi distopici novecenteschi soprattutto degli eventi drammatici del Novecento e in particolare dei regimi totalitari che hanno permesso al genere di proliferare nella seconda metà del secolo, complice il clima di timore e di tensione persistente ben oltre la caduta delle dittature occidentali.
Emerge, dunque, uno scetticismo pessimistico nei confronti della capacità riformatrice dello Stato verso la società, visti proprio gli insuccessi delle fantomatiche utopie realizzate a prezzo della libertà individuale e intellettuale.

È il caso di 1984 di George Orwell che ha a lungo conteso il primato del genere con Il Mondo Nuovo di Huxley e che ha toccato temi quali la tecnologia al servizio della sorveglianza, della propaganda e del controllo delle masse a scapito dell’individualità e della libertà umana.
Ma anche Fahrenheit 451 di Ray Bradbury del 1953 ha risentito dei suoi recenti accadimenti storici, quali primo fra tutti l’avvento del nazismo che con la sua propaganda di opposizione alla cultura e la distruzione di opere non conformi al regime ha probabilmente rappresentato il termine principale di paragone di un mondo in cui i pompieri hanno il preciso compito di bruciare libri e in cui, simbolicamente, la tv e la radio costituiscono l’unico elemento culturale.
Viene spontaneo interrogarsi, in questi nostri tempi moderni, in cui la tecnologia non solo non ha arrestato il suo sviluppo ma sembra espandersi e penetrare sempre di più nelle nostre vite, su quanto di ciò che è stato paventato nelle distopie novecentesche si sia avverato e quanto, invece, è rimasto teorizzazione immaginaria del genio di questi scrittori.
Una cosa è certa, che quello distopico rimane il genere per eccellenza per riflettere su cosa il nostro cosiddetto progresso ci sta regalando e dove, soprattutto, ci porterà.
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